Non licenziate, ricollocate!

I dati Istat parlano chiaro. Nel 2018 si sono avute complessivamente 6.993.000 cessazioni di rapporti di lavoro, numero in aumento rispetto all’anno precedente del 6% e le previsioni per questo anno che si avvia alla fine non sono certo positive. Un esercito di persone, di diversa età e professione, che ha fatto lievitare la spesa nazionale annuale per le politiche passive arrivata a 17 miliardi di euro.Avviare politiche attive serie che aiutino questi uomini e donne a trovare una nuova collocazione in tempi rapidi è una delle urgenze del nostro Paese. Anche perché là dove vi si fa ricorso attraverso strumenti efficasci i risultati ci sono. A dirlo sono i numeri che hanno disegnato il profilo del mercato dell’outplacement ( supporto alal ricollocazione professionale) lo scorso anno, in base ai quali sono stati supportati oltre 3.000 persone, di cui 435 dirigenti, 505 quadri e 1.515 tra impiegati e operai, con un tempo medio di ricollocazione è di 6 mesi e mezzo e con percentuali di successo che arrivano all’85% , ma sfiorano il 92% nel caso dei dirigenti.
Si ricollocano l’80% degli operai e degli impiegati (erano il 76% nel 2016) e il 67% dei Quadri. Sono però proprio le figure aziendali intermedie quelle che ritrovano lavoro nei tempi più brevi, 6,1 mesi in media (erano 6,8 nel 2016), contro i 6,2 mesi degli operai e degli impiegati e i 6,9 mesi dei dirigenti. «Per questo sono fermamente convinto che ricollocare sia molto meglio che licenziare», afferma Franco Faoro, membro di Aiso e Presidente  di S&A Change, società specializzata dal oltre 25 anni  nei servizi di Outplacement  e in career coaching. E non solo perché interrompere un rapporto di lavoro per l’azienda ha un costo economico, ma anche perché non va dimenticato che «L’impresa ha anche una responsabilità sociale. Aspetto che i mercati finanziari tengono sempre più in considerazione e  che le imprese dovrebbero tenere presente, indipendentemente dal quadro economico in cui si trovano a operare.  Tradotto in pratica questo significa gestire le uscite in modo più efficiente», dice Faoro.  

Italia al 125° posto nella classifica dei Paesi più efficienti nelle modalità di licenziamento

E su questo fronte il nostro Paese arranca. A dirlo un recente ricerca condotta dal Centro Studi ImpresaLavoro realizzata sulla base dei dati presenti all’interno del The Global Competitiveness Report 2018-2019, pubblicato dal World Economic Forum, in base alla quale il nostro Paese si posiziona al 24° posto nella graduatoria europea dell’efficienza nelle modalità di licenziamento e al 125° in quella mondiale. «Chi non sa licenziare “manda via”, chi lo sa fare gestisce l’uscita con progetti capaci di affiancare e supportare le persone anche nella fase successiva all’uscita dell’azienda», afferma Faoro. «Gestire in maniera consensuale il licenziamento è infatti anche espressione di competenza professionale da parte dell’ Hr manager e di maturità sociale da parte dell’azienda».  

La condivisione del progetto riduce i tempi di ricollocazione

Senza dimenticare poi i vantaggi lato dipendente di una gestione attiva dell’uscita dall’azienda. «Sulla base della mia esperienza», precisa Faoro «e di alcune ricerche realizzate in Paesi più evoluti come l’Olanda, se la persona in uscita è parte attiva del processo, condivide il progetto aziendale di uscita, alla fine trova una nuova ricollocazione sul mercato del lavoro più velocemente». Dialogando e confrontandosi apertamente con l’Hr manager il lavoratore riesce infatti a capire che in un percorso di carriera maturato su un mercato del lavoro sempre più liquido, le interruzioni rientrano nell’ordine delle cose. Non si tratta di incompetenza professionale o di inadeguatezza personale. «Guidare il lavoratore verso un nuovo iter di lavoro significa fargli capire che l’azienda è dalla sua parte anche in questa delicata fase. Riconoscere la persona, tutelarla per l’impresa alla fine si traduce anche in un risparmio di tempo, denaro ed energie», conclude Faoro.